Durante un’estate ho avuto modo di provare quanto sia sottile il limite tra curare, curarsi ed essere curati.
Assistere all’impossibilità di agire, di muoversi, di comunicare, di interagire con noi nella pur minima accezione, mette alla prova la nostra capacità di sopravvivere, di curarci, e di lasciarci curare. Tanto più se la persona imprigionata in un corpo che non risponde è il proprio figlio.
Il cervello ha capacità straordinarie e sconosciute. Ancora oggi lo stato di coma è un mistero. Cosa avviene al cervello durante il coma e perché esso stesso si metta in una condizione di stand by, nessuno è ancora in grado di spiegarlo davvero. Così come la capacità di rigenerazione delle funzioni del cervello, dopo lo stato di coma, è un piccolo miracolo. Il cervello si auto ripara. Ed io immagino squadre super organizzate di specialisti del settore edile (muratori, elettricisti, idraulici, tecnici del suono, operai, ecc) che, come dopo un terremoto o uno tsunami, si muovono per il territorio distrutto, decidendo quali strade ripristinare per prime, perché le grandi vie di comunicazione siano ricostruite, e quali opere lasciare da ricostruire in un secondo tempo perché necessitano di manutenzione fine. Il cervello come un grande cantiere in via di ricostruzione.
Intanto all’esterno qualcuno si sta prendendo cura del nostro corpo, un involucro bellissimo, che non è più capace di compiere il minimo movimento. La cura che una madre rivolge a quel corpo è la stessa di quando, appena arrivato al mondo, piccolo e grinzoso, doveva ancora dare un senso ai movimenti e al suo stare in questo mondo e per i primi anni di vita ha avuto bisogno di chi lo lavasse, lo nutrisse, lo vestisse, lo scaldasse, lo coccolasse. Di chi, in prima istanza, ci ama più di sé stesso ed è disposto a dimenticarsi di sé per noi.
Curare si declina con il verbo amore. Che è indissolubilmente legato all’essere curato: dove c’è uno che cura, c’è qualcuno che ha bisogno di essere curato. Ma sia uno che l’altro hanno bisogno, nello stesso tempo, di curarsi.
Mentre il cervello di Laura è un grande cantiere dopo lo tsunami, il suo corpo cicatrizza ferite e, ri-stabilizza la capacità di autonomia delle funzioni vitali. E lascia che qualcuno si prenda cura con dedizione ed attenzione dell’involucro. Così che a compimento del periodo di ristrutturazione la crisalide sia pronta a ritornare in volo.
Quello che avviene nel corpo e nella mente di Laura è qualcosa di completamente diverso: è un lento e inarrestabile crollo di certezze, di sicurezze, di ordinarietà, di routine. E mano a mano che i muri crollano, lasciano spazio al vento implacabile della rabbia, dell’amore, dell’ingiustizia, della speranza, della stanchezza, dell’impensabile, dell’immenso dolore moltiplicato all’infinito per il corpo distrutto del proprio figlio e per la distruzione che sta avvenendo nel proprio.
E così curare il corpo dell’altro è un istinto, una spinta inarrestabile, non controllabile, come se prendersi cura di quel corpo possa di riflesso essere cura anche per il nostro corpo. Fungiamo da collaboratori esterni al cantiere edile: loro lavorano da dentro, noi verifichiamo da fuori che le strade siano funzionanti e la comunicazione tra interno ed esterno possa essere ripristinata. Per ogni crepa ripristinata, per ogni mattone riposizionato nel corpo dell’amato, aggiustiamo una crepa e riposizioniamo un mattone dentro il nostro di corpo.
Curare per curarsi. Essere curati per poter curare. La linea di demarcazione è sottile, sfumata. Una sottile linea rossa che li cuce insieme per poter ricostruire e ricostruirci. Per poter amare ed essere amati.
A cura di Dott.ssa Viviana Gaglione – Logopedista